La rilevazione. Il Ponente genovese


Maria Teresa Caprile /Relazione CCM Ponente


Oggetto:
Conservatorio delle Cucine Mediterranee, incarico alla ditta Charta s.r.l. - relazione conclusiva

Sulla base degli accordi intercorsi tra la committente Provincia di Genova e la ditta Charta s.r.l., come da delibera della Giunta Provinciale N. 668 prot. n. 62246 del 4 novembre 1998, la stessa ditta ha concluso l'incarico affidatole con specifica delibera, e precisamente le seguenti fasi:

Considerazioni sul metodo e sui risultati

La ricerca di terreno si è svolta dal marzo al luglio 1999, ha coinvolto 34 informatori e raccolto 412 schede in materiale cartaceo (con 66 segnalazioni di varietà colturali, 59 ricette di prodotti e 243 ricette di piatti), che sono state inserite nella banca-dati dalle stesse curatrici della ricerca.

Per avvicinare il maggior numero di informatori si è seguito un metodo che si potrebbe definire "della catena", per cui si contatta A (un amico di famiglia, un sacerdote, un insegnante...), che parla di B, che a sua volta propone C; la persona realmente intervistata, per requisiti di conoscenza, età, collocazione geografica nell'area "giusta", è così a volte la quarta o quinta lettera dell'alfabeto nel corso del processo.

Dunque, le curatrici non appartengono alla locale rete di relazioni e vi sono introdotte dopo una serie di passaggi, con tutte le difficoltà di asimmetria di rapporto (intervistatore/intervistato) facilmente immaginabili. Laddove il testimone ha mostrato maggior entusiasmo e disponibilità, l'intervista[1] è stata registrata in dialetto, poiché questa era la lingua più comunemente usata dal protagonista; negli altri casi si è preferito lasciare che le persone parlassero in italiano, in quanto per loro di uso più corrente rispetto al genovese stretto (trattandosi magari di ristoratori con clientela anche extra-genovese, oppure nonni non avvezzi a parlare in dialetto ai nipoti), riservandosi di annotare espressioni dialettali o in italiano "contaminato" dal dialetto quando queste apparivano significative.

L'età degli informatori contattati è compresa tra gli 87 e i 44 anni, tranne nel caso di due produttori neanche quarantenni[2], ma interessanti per la loro scelta professionale (nel campo delle coltivazioni biologiche o dell'agriturismo) e per la loro reale appartenenza alla realtà locale, in quanto residenti, non pendolari, e soprattutto attivatori delle risorse locali che hanno reso economicamente significative. E' possibile tracciare una fascia di persone nate tra il 1912 e il 1955 che permette un'osservazione supplementare: i membri più anziani sanno fornire importanti informazioni relative a pratiche ormai estinte da decenni nell'area indagata (valga l'esempio dell'essiccazione delle castagne) o "viste fare" da una generazione precedente la loro (il pandolce natalizio, nelle dosi avare e nel rispetto di tempi tradizionali che erano tipici dei loro genitori).

Il valore delle informazioni raccolte non va disgiunto dall'attendibilità dell'informatore: questo è stato scelto in base alla sua formazione o alla professione svolta (produttore agricolo, cuoco, appassionato di cucina) e valutato nel corso dell'intervista in base alla ricchezza della sua testimonianza, alla disponibilità e al piacere di ricordare, alla sua buona memoria e al fatto di praticare tuttora quanto va riferendo (la maggior parte dei piatti descritti viene preparata e consumata con frequenza). Quest'ultimo caso non dà però origine ad un trattamento di carattere gerarchico delle informazioni: si attribuisce pari validità alla ricetta degli gnocchi col pesto che l'intervistato mangia tutte le domeniche come a quella dei berodi visti fare da un parente fino a una trentina di anni fa, e che potrebbe contenere qualche imprecisione. Si è preferito, infatti, conservare tutte le informazioni anche laddove (ed è soprattutto il caso delle cultivar) era difficile misurare la "verità" delle stesse, in quanto è più importante registrare la presenza di una varietà e la sua relazione con un nome locale, o l'attestazione di una pratica (e le ricette ad essa connessa) così come è sopravvissuta nella memoria dell'informatore. Vale la pena osservare che ogni deformazione, all'interno di una testimonianza, è essa stessa una fonte, che non solo complica, ma movimenta il quadro della ricostruzione storica di una determinata società, e permette una vasta gamma di ipotesi di lavoro per ricerche di tipo linguistico, etnografico, socioeconomico. E' l'esperienza locale, condivisa da uno specifico gruppo finché questo si mantiene coattivo (cioè si riconosce in un senso comune), che stabilisce ad esempio un criterio di riconoscimento e di classificazione delle varietà colturali, che in questo senso, e non secondo un'ottica scientifica e specialistica, è valida e vera. Gli informatori ascoltati sono dunque testimoni di questo senso comune (e in generale delle strutture tradizionali in cui era organizzata una società ben precisa in termini di tempo e di luoghi), della sua resistenza, delle sue rapide o lente trasformazioni.

La ricerca ha sicuramente messo in evidenza quanto sia ricca la gamma di variabilità delle ricette locali: si possono citare le N versioni di pesto riconosciute (interessanti quelle contenenti prezzemolo / spinaci / borragine bolliti), o gli N modi di preparare la torta di verdure, che testimoniano come le versioni più conosciute (il pesto fatto di solo basilico, la torta contenente solo carciofi) siano più che altro il risultato della moderna disponibilità di elementi "nobili", a differenza di un passato in cui i consumatori dovevano necessariamente ingegnarsi di utilizzare tutte le risorse alimentari che la loro terra offriva.

Quale critica importante alle informazioni ricevute, occorre segnalare che i piatti descritti, per ovvie ragioni di disponibilità e organizzazione, non sono mai stati preparati di fronte all'intervistatore, per cui non si possono escludere omissioni di ingredienti (dal momento che la memoria è inevitabilmente più imprecisa rispetto alla ripetizione di una pratica). Alcune ricette sono tratte invece da ricettari personali e manoscritti dall'informatore, che ne ha permesso la visione e la copiatura alle curatrici della presente ricerca, e nelle schede si distinguono dalle altre perché indicano le dosi giuste degli ingredienti usati: queste ultime sono comprensibilmente le più precise e le meglio descritte.

E' interessante notare che, soprattutto relativamente ai piatti a base di verdure, l'informatore era orgoglioso di precisare che queste provenivano dal suo orto, dalla sua fascia, dal suo vaso di rumanin (rosmarino) (o naturalmente dalla sua azienda!): questo dà l'idea di un filo che collega la gente, l'ambiente, i sensi (e non solo la necessità ineluttabile di nutrirsi). Quella che per lo storico è la necessità di valorizzare la varietà di ingredienti e le loro "sfumature" locali come parte di un patrimonio culturale collettivo, per questi informatori è il piacere di testimoniare una continuità di gusti, profumi e azioni (ogni ricetta, ricordiamolo, non è solo dosi e ingredienti, ma anche abilità nel compiere i gesti giusti) che stabilisce la loro appartenenza a un luogo e a una famiglia, o il progetto di dare nuovo vigore alla tradizione proponendola al di fuori dello stretto ambito casalingo (ecco allora gli agriturismi, le non poche trattorie), a un pubblico più esigente e consapevole di quello che frequenta i "fast-food" e l'anonimato degli scaffali dei supermercati.


Annotazioni

[1] Da una delle registrazioni sono strati tratti i file in formato MP3 (dimensione compresa tra 70 e 90 KB) a complemento di questa fase dell'indagine.

[2] Ci sono anche due giovanissimi (29 e 21 anni) informatori, interpellati in quanto uno ha rilevato l'azienda di famiglia (trattoria a cucina casalinga), l'altro è testimone di un'interessante tradizione natalizia nella casa dei nonni paterni.